Negli anni il legislatore e la magistratura hanno inferto durissimi colpi a questo sacrosanto diritto dell’ uomo, che tuttavia è sopravvissuto a mille insidie e trabocchetti. 

Prendendo a prestito, per comodità espositiva, dal testo sacro indù dei Veda il concetto delle 4 Età del Cosmo, potremmo suddividere la complessa storia dell’equa riparazione in 4 fasi: un’Età dell’Oro, un’Età dell’Argento, un’Età del bronzo ed un’ Età del Ferro.

In principio era l’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, recepita nel nostro ordinamento dalla Legge n. 848/1955: in caso di violazione della predetta norma era possibile ricorrere alla Corte Europea di Strasburgo, che liquidava l’importo di euro 2.000 ad anno, senza fare distinzioni tra anni di durata “ragionevole” ed anni di durata “irragionevole”.

Nell’epoca “aurea” dell’equa riparazione, la liquidazione dell’indennizzo era rapida e tempestiva.

La prima delle numerosissime condanne della Corte di Strasburgo all’Italia per l’eccessiva durata di un processo penale fu adottata il 10 dicembre 1982 (causa Foti e altri contro Italia), mentre la prima condanna del nostro Stato per l’irragionevole durata di un processo civile risale al 25 giugno 1987 (causa Capuano contro Italia).

Le reiterate condanne ad opera della Corte Europea dello Stato italiano per l’irragionevole durata dei suoi processi, indussero lo Stato italiano ad affrontare il problema con una riforma legislativa, ossia promulgando la legge 24 marzo 2001 n. 89, nota come “Legge Pinto”.

Con la Legge n. 89/2001, voluta da Romano Prodi e da Michele Pinto (un avvocato che fu Ministro delle Politiche Agricole verso la fine degli anni ‘90 nel Governo Prodi) essenzialmente per limitare l’ammontare dei risarcimenti, venne inaugurata l’Età dell’Argento:

si passò da 2.000 euro ad anno a 1.000 euro ad anno di durata “irragionevole” del processo.

Era possibile pignorare il terzo Equitalia e successivamente il terzo Banca d’Italia per ottenere il pagamento in tempi rapidi e le Corti di Appello nazionali liquidavano ai difensori cifre eque e più che dignitose, a titolo di spese processuali.

Tra il 2007 ed il 2008 subentrò l’Età del Bronzo dell’equa riparazione: 

del tutto inaspettatamente la Corte di Cassazione modificò le regole circa la competenza per territorio a presentare le domande di equa riparazione, cambiando di fatto le regole del gioco durante la partita (ove si consideri che il cambiamento venne retroattivamente imposto anche per le cause già avviate, anzichè soltanto per quelle da avviare!) e consentendo allo Stato italiano di guadagnare tempo e di riorganizzare le proprie (sempre più) dissestate finanze.

Per farla breve, con il solito intervento legislativo “filo-statalista” si stabilì l’impignorabilità di Banca d’Italia e le Corti di Appello cominciarono a liquidare l’importo di euro 500 ad anno di irragionevole durata del processo ed a volte anche meno, costringendo gli avvocati del settore a presentare una “valanga” di ricorsi in Cassazione (tutti accolti), dato il principio chiaramente statuito dalla Suprema Corte per cui i risarcimenti devono essere in linea con i parametri individuati dalla Corte europea di Strasburgo.

Da ultimo, nel 2012, una riforma della Legge Pinto fortemente voluta dal Governo Monti, sulla scia delle politiche di austerità dettate dall’Unione Europea, ha inaugurato l’Età del Ferro dell’equa riparazione: l’attuale testo legislativo, infatti, prevede un risarcimento compreso tra 400 ed 800 euro l’anno di durata irragionevole del processo, salvo alcuni aumenti percentuali, nonchè un costoso e complesso onere probatorio a carico del ricorrente, in base al quale vanno allegati al ricorso di equa riparazione le copie autentiche degli atti processuali.

In definitiva, l’equa riparazione resiste e conviene ancora farla valere in giudizio proprio perché la Giustizia italiana – mancando di fondi e di personale – difficilmente risolverà il problema, ormai cronico, della propria lentezza.

Categories:

Tags:

Comments are closed